Con i diari ho sempre avuto un rapporto altalenante, per questo nella mia vita ne ho cominciati tanti senza mai finirne alcuno. Un pò di mesi, un pò di pagine e dopo tanta carta bianca e non più una data. L'idea di lasciare una traccia concreta di un qualcosa di tanto etereo come una sensazione mi affascina, lo ha sempre fatto, ma mi costa tradurlo in azione e farlo con la continuità necessaria ad un diario. Eppure soffro della volubilità delle mie sensazioni, mi angoscia sapere che sto disperdendo un patrimonio di riflessioni, elaborate nei momenti più inaspettati e nelle situazioni più improbabili. Per questa mancanza biasimo la mia pigrizia, come fosse qualcosa a me estraneo, o come se criticandola potessi distaccarmene, disconoscerne la paternità. A volte credo che sia perché sono più attratto dal futuro che dal passato e un diario, in fondo, è un monumento al passato. Ci sono però giorni, come oggi, in cui un'inspiegabile curiosità mi porta a riprendere in mano quegli abbozzi di diari, quei simboli dei miei tentativi di afferrare sensazioni e riflessioni.
Alcuni anni fa scrivevo: "Ci sono molte cose che non vanno, questo è il punto. Sarebbe meglio risolverle, invece continuo ad aggirarle, stancamente, e non si sblocca niente. Per primo, dovrei rimettere a posto il passato per rendere il presente più chiaro, ma con il futuro così incerto è difficile dire "passato" e definirlo, passo necessario per rimetterlo a posto. Partirei allora dal futuro per capire il presente, dargli una direzione, ma questo non dipende solo da me e ciò mi fa soffrire, tanto da farmi fischiettare e dimenticarmi di prenderlo in considerazione".
Un'altra pagina raccoglie le sensazioni dopo un pomeriggio passato nel campo nomadi, facendo volontariato con i bambini rom. Ci ritrovo i nomi dei bambini, che da tanto tempo cercavo di ricordare senza riuscirvi: Arsim, Alì, Tefik, Rabje, Fatima, Albert. E' una specie di diario di bordo, in stile marinaresco; cosa facevamo, chi vedevamo, come andavano le cose. Mi sorprende che fra le pagine ci sia una tale differenza di stile, ma tant'è, anche questo fa parte dei miei tentativi.
Tornando ancora un pò indietro leggo: "La vacanza è finita e mi chiedo dove voglia andare ora il mio spirito festoso, se si accontenterà di rimanere in me, aiutandomi ad essere un poco più gioioso o se, infingardo approfittatore, solitario spirito, troverà nuova pace altrove".
Sono emozionato, lo ammetto, e per questo mi sono fatto prendere la mano. Chissà però che nel passato non ci siano le risposte per il futuro; in fondo alcune delle riflessioni che ho letto non sono così distanti dai sentimenti di oggi. In fondo per certe cose non sono cambiato molto. Forse dovrei riprovarci, mi dico, fare un ennesimo tentativo di diario ...
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Per essere spiriti liberi, ci vuole una certa disciplina
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Per essere spiriti liberi, ci vuole una certa disciplina
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domenica 11 novembre 2007
Diari
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4 commenti:
se domini il passato, domini il presente..
non so bene perchè scrivo, ne cosa scriverò, ma leggendo le tue parole è scattata dentro di me una molla....ritrovo nelle tue emozioni le mie, nei tuoi tentativi i miei, nella tua amarezza la mia.....ho riaperto quel cassetto ed ho trovato mucchi di pagine scritte, inizi di un grande sogno mai realizzato...forse la nostra non è pigrizia, forse ci manca qualcosa che ci faccia spiccare il volo....rileggo quelle pagine, ritrovo parti di me dimenticate o che forse non esistono più e sono arrivato ad una riflessione: forse non ho mai portato fino in fondo i miei tentativi per paura di vivere troppo il passato dimenticandomi di vivere il presente....ma non mi arrendo sai? un giorno troverò il filo conduttore che legherà una all'altra quelle pagine dandogli un senso che ancora non trovo....
premessa: lo so, è lunghissimo, ma è uscito così.. mi potrai perdonare?? così poi impari a istigarmi.. jeje)
PASSATO, PRESENTE E FUTURO: qualche possibile perché al diario…
Imparare ad apprezzare l’istante, l’eternità del presente è l’unica cosa a noi concessa. S.Agostino, nelle sue Confessioni, ammette che: “Futuro e passato non esistono e impropriamente si dice che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Più esatto sarebbe dire: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa”.
Le storie sono interpretazioni sulla vita e, in quanto tali, non soltanto rappresentazioni, che raccolgono e organizzano l’esperienza, ma vere e proprie ricostruzioni, che producono uno sguardo sul passato, un’anticipazione sul futuro, una guida per l’azione presente: infatti, attraverso le storie, ognuno organizza se stesso nel tempo e nello spazio, costruendo e ricostruendo la propria esperienza.
Si può rievocare la propria esperienza, dare voce alle emozioni passate e presenti, e, nel tentativo di distinguerle, evidenziare quelle passate che ancora agiscono; inoltre, favorendo l’emergere delle personali abilità, attitudini, aspirazioni e desideri, è possibile rivedere la propria storia per progettare e immaginare un futuro, dando un senso al presente.
Noi non ci accontentiamo mai della narrazione contemplativa; tentiamo di spiegare, giustificare, capire i perché. I perché sono ciò che possiamo permetterci; la possibilità di trovare un senso alla nostra vita e alla nostra storia, tramite la narrazione, è legata alla capacità magica delle parole di riattualizzare il passato nella concretezza del presente.
Attraverso la scrittura del proprio passato si è costretti a rallentare il ritmo delle parole, obbligati, attraverso la memoria e il ricordo, ad avvicinarsi all’esperienza che riaffiora: lasciata la traccia sul foglio, incontri, parole, sguardi prendono forma ed è possibile riviverli, oggettivarli e, nel medesimo tempo, riflettere su di essi, osservandoli a distanza, o meglio, distanziandosene abbastanza da vederne il disegno.
La funzione più interessante della memoria è forse quella di essere sovversiva, cioè di conservare le tracce anche di ciò che nell’identità attuale, e nelle storie che raccontiamo a partire da questa, non trova posto, di ciò che ci sembrava dimenticato o lasciato per sempre da parte.
Ci sono comunque storie che non vorremmo raccontare a nessuno: a volte perché fanno male e non le vorremmo raccontare nemmeno a noi stessi; a volte perché non sapremmo giustificarle. O perché non sappiamo a chi raccontarle. A volte è per conservarle meglio: ciò che le parole non nominano rimane disponibile al ricordo inatteso, tanto più forte e in forma originale quanto più non vi si è sovrapposto alcun lavoro di riorganizzazione cosciente. Il ricordare genera desiderio, l’emozione del ricordo è desiderante e, talvolta, può permettersi di divenire progettuale, nel tentativo di riavviare la ricerca, da tempo abbandonata, o mai intrapresa, delle chiavi risolutive o interpretative di particolari esperienze vissute.
A volte, però, trovare le parole giuste (le uniche giuste fra tutte quelle possibili, dice Italo Calvino) è il solo modo per scavare davvero in profondità dentro se stessi, perché la lingua permette all’evanescenza delle sensazioni di acquistare permanenza, nonché l’efficacia della sintesi dovuta a selezione. Madeleine Baranger scrive: “Il materiale parlato è sempre una selezione: la parola è più lenta del pensiero”.
La vita si presenta dotata di una sorta di sintassi interiore, che si incarica di mettere ordine, affinché il racconto sia comunicabile. Tutta la nostra esistenza è allora un viaggio alla ricerca di quella “costruzione sintattica” dalla quale dipende la possibilità di comprenderci e farci comprendere. Per questo siamo soprattutto linguaggio, come sosteneva Ungaretti: “l’uomo, per l’opera della conoscenza, non dispone se non di parole”.
Socrate poi, come l’oracolo di Delfi, diceva: "conosci te stesso", ma nel suggerimento si dovrebbe forse aggiungere “conosci il modo di comunicare te stesso”.
L’oggetto della conoscenza, infatti, non è solo l’interiorità, ma anche la possibilità, socialmente fondata, della sua testimonianza. E, soprattutto, il desiderio di testimoniare come siamo dentro non può essere realizzato attraverso l’illusione della spontaneità. Le persone più capaci di trasmettere e suscitare emozioni non sono spontanee, sono, semmai, autentiche, laddove autenticità vuol dire coerenza fra le caratteristiche identitarie del soggetto e le esigenze imposte dalla sua vita di relazione.
L’identità non è il soggetto e nemmeno è nel soggetto. Essa sta davanti, dietro, intorno a noi: è nella relazione, nello scambio. L’autenticità della relazione non dipende dal fatto che il nostro modo di essere corrisponda a verità (corrispondenza definita sincerità o spontaneità); essa dipende, quando ci accorgiamo di essere sufficientemente a nostro agio in una relazione, dalla verifica dei feed-back che riceviamo. Infatti, queste retroazioni, risposte di ritorno, possono indicarci se il nostro modo di comunicare chi siamo è capace di dirlo davvero, se il nostro universo sentimentale è compreso e accettato dai nostri interlocutori, se quello che sembriamo agli altri coincide a sufficienza con l’immagine che noi stessi abbiamo, e stiamo costruendo, di noi.
L’amore per se stessi, nasce quando l’immagine che diamo di noi, restituitaci dagli altri, riesce ad avere l’autentico profilo del nostro panorama interiore e (assodato questo) se riceviamo conferma di essere amati e apprezzati per tale panorama, cioè per ciò che siamo davvero.
La nostra identità cresce a mano a mano che aumenta la capacità di narrare le esperienze e di ascoltare quelle degli altri. Attraverso i momenti narrativi entriamo nell’universo semantico dell’altro, ci misuriamo continuamente per creare narrazioni condivise o contrapposte, diventiamo più consapevoli di quali credenze e valori improntano la nostra vita e quindi più consapevoli di noi stessi.
Narrazione è dunque scambio, transazione, pratica sociale in cui due o più persone mettono in comune una storia, creando o consolidando una condivisione o semplicemente tentando di spiegarsi e decifrarsi a vicenda.
Se narriamo, è perché non siamo immediatamente trasparenti a noi stessi e le nostre azioni ci sfuggono: narrando, incrementiamo la nostra comprensione. Narrando, gli esseri umani cooperano a investigare e a definire i significati di quello che fanno e di quello che accade, posizionandosi e riposizionandosi incessantemente nelle proprie relazioni reciproche.
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